Più che l’anagrafe, pesano le sue parole: «L’approccio è quello dei cercatori d’oro. Se trovi un filone, devi scavare anche di domenica, di notte, sempre».
Audacia, fortuna, sacrificio, tenacia: in ordine alfabetico c’è il distillato di uno dei più straordinari imprenditori del mondo, l’ex commesso di Santa Bona, diventato uno degli uomini più ricchi del mondo. A Treviso lo chiamano il Signor Luciano. Quinta elementare e tre lauree honoris causa. Visionario, cosmopolita, innovativo. Nato il 13 maggio 1935 da Rosa Carniato e Leone Benetton, primo di quattro fratelli (Giuliana 1937, Gilberto 1941, Carlo 1943), costretto a lasciare la scuola dopo la morte del padre, in un’età – dieci anni – in cui i nostri figli giocano sul divano, Luciano inizia a lavorare come garzone da Campana, una sorta di grande magazzino di tessuti, poi nel più elegante negozio Dellasiega dove impara il gusto, lo stile e l’approccio commerciale che lo accompagnerà per tutta la vita. Non si scoraggia: guardando le mani veloci della sorella magliaia Giuliana, la più affine tra i fratelli, intuisce che si può mettersi in proprio. Insieme comprano una macchina da maglieria da 300 mila lire: il primo maglione glielo compra il vicino di casa, il droghiere di Santa Bona. I primi maglioni si chiamano Trés Jolie, le collezioni che finiscono nei negozi sono Lady Godiva e Dorval. Ma sarà l’amicizia con il primo agente, Roberto Calderoni e le sue relazioni nella comunità ebraica romana e con i fratelli Tagliacozzo, a mostrare che quei maglioni disegnati dalla Giuliana potevano davvero conquistarsi uno spazio commerciale.
Il primo negozio si chiama My Market e viene aperto a Belluno da Pietro Marchiorello nel 1965: «Se funziona a Belluno, funziona ovunque». Pochi mesi dopo My Market apre a Cortina – per sondare il pubblico internazionale – e a Padova per gli studenti universitari. Funzionano. A questo punto tutti e quattro i fratelli si dedicano all’impresa: Luciano da leader e abile commerciale, Giuliana nello stile, Gilberto nei conti, Carlo nella produzione. Il minuscolo laboratorio di Ponzano, che nel frattempo aveva sostituito la stanza accanto a casa, non basta più: i fratelli comprano una campagna e realizzano in tredici mesi una nuova fabbrica, disegnata da Afra Bianchin e Tobia Scarpa, che li accompagneranno in tutte le iniziative architettoniche e nel concept dei negozi. All’inaugurazione dello stabilimento (8 maggio 1966), il sottosegretario che taglia il nastro non vuole credere che artefici di quel grande moderno capannone siano quattro ragazzi: il più grande ha trent’anni, il più piccolo 21. Un’intraprendenza non ripetibile nella impaludata Italia di questi anni. Tutto ciò che profuma di nuovo e di rottura di schemi, per Luciano Benetton è fonte di ispirazione: lui gira per Treviso con una Due cavalli, si lascia i capelli lunghi, veste con pantaloni a zampa d’elefante e sandali ai piedi (ma in banca ci manda Gilberto, il fratello ragioniere).
I maglioni non bastano più, Luciano e i suoi fratelli organizzano la fabbrica diffusa che diventerà un modello industriale: una rete di laboratori altamente specializzati e flessibili. Guardano le corriere color caffelatte della SanRemo: «La loro organizzazione era per noi un modello da replicare al contrario» spiega Luciano nel volume «Benetton. L’impresa della visione». Nasce la fabbrica elastica, capace di rispondere alle richieste del mercato in tempo reale. Ci penserà Ado Montana, erede di una dinastia di tintori dalmati, a trovare la formula della “tintura in capo”, cioè la possibilità di tingere le maglie a capo finito. Una rivoluzione produttiva che darà a Benetton un vantaggio straordinario. Nel 1972 il 30% della produzione è realizzata al di fuori della fabbrica principale, una percentuale destinata ad aumentare costantemente. Sono già innovative le campagne pubblicitarie: Salvador Dalì che appende un manifesto per l’aborto, una ragazza che gioca a biliardo: il marchio è Jean’s West ed è già di tendenza. Nel 1974 il fatturato è di dieci miliardi di lire, con un utile di 800 milioni: l’impresa ha 285 dipendenti. Ma in tre anni le dimensioni industriali esplodono, con ricavi che arrivano a sfiorare i sessanta miliardi nel 1977.
Nel 1978 l’azienda occupa più di mille persone, ma i margini decrescono, anche per il peso degli investimenti. Si prepara una nuova rivoluzione. Benetton restituisce al territorio: costruisce la Ghirada (1982), realizza il Palaverde (1983), apre il polo logistico di Castrette (1984), entra nello sport trevigiano (nel 1979 il rugby, l’unico che ha mantenuto, nel 1983 il basket, nel 1987 il volley). Nel 1987 costituisce la Fondazione Benetton («Cercare la bellezza è nella nostra natura ed è quello che facciamo tutti i giorni, occupandoci di moda»). Nel frattempo cresce il gruppo industriale, impostato secondo modelli organizzativi e finanziari moderni: nel 1981 nasce Edizione, che diventerà la holding della famiglia, nel 1982 l’arrivo del manager Aldo Palmeri fa uscire quasi tutta la prima linea di manager storici, nel 1986 l’azienda debutta in Borsa (a Milano, Francoforte e New York) e incassa subito 160 miliardi di lire. Si prende persino una scuderia di Formula Uno: in quindici stagioni – tra il 1986 e il 2001 _ disputa 260 gran premi, vince 27 volte, conquista due titoli mondiali, scopre Michael Schumacher prima del Cavallino. Gianni Agnelli dirà a Luciano: «Ho detto agli uomini della Ferrari che non è possibile che la Benetton faccia delle auto migliori delle nostre: perché è come se la Fiat si mettesse a fare dei pullover meglio della Benetton».
Nel 1991 la provocazione delle campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani: la neonata Giusy insanguinata nel cordone ombelicale, la nave Vlora straripante di albanesi, il bacio innocente tra il prete e la suora, l’immagine da Pietà michelangiolesca del malato terminale di Aids. La collaborazione con Toscani si interromperà dopo la campagna sui condannati a morte americani, ma il rapporto con il creativo toscano rimane nel tempo. La prima diversificazione arriva nel 1989, con l’acquisto di Nordica, Asolo, Rollerblade, Kastle. Non sarà tra le operazioni più fortunate. Edizione, nel frattempo, partecipa alle privatizzazioni italiane: autostrade e autogrill, aeroporti, grandi stazioni. Il tessile ora pesa poco più del 10 per cento. Il resto è cronaca. Il magico “triplete” di scudetti nel basket, nel volley e nel rugby del 2003, il passo indietro annunciato della prima generazione e solo ora, faticosamente e (quasi) completamente realizzato a favore dei manager, le difficoltà accusate dall’ammiraglia Benetton proprio nel momento della crisi, la capacità di ammordire i contraccolpi grazie a una diversificazione matura. Sullo sfondo, l’inevitabile ingresso di un nuovo partner industriale che assomigli alla prima, pioneristica, irripetibile Benetton.