Siamo così poco inclini a guardare dentro al passato che rischiamo di copiare da noi stessi pensando di copiare l’America. Così come snobbiamo l’apertura mediterranea della Serenissima Repubblica, siamo abituati a guardare alla grande rivoluzione industriale pensando soltanto all’Inghilterra del primo Ottocento, senza vedere ciò che è passato davanti ai nostri occhi.
Solo un deprecabile provincialismo spiega dunque come sia potuto passare quasi inosservato il bicentenario della nascita della Lanerossi di Schio, che per quasi un secolo fu la più grande industria tessile italiana. Tra le poche – eppur lodevoli – iniziative il convegno che questo pomeriggio si tiene al Teatro Olimpico di Vicenza. Un invito a studiare il passato industriale per trovare nuove ragioni economiche, magari riannodando il filo rosso che unisce il villaggio Eni di Borca di Cadore alla storia della Lanerossi, che del gruppo petrolifero fu parte per 25 anni fino all’arrivo nel 1987 della Marzotto, che sta valutando alcune ipotesi di riposizionamento del marchio. Perché se è vero che l’Italia è luogo di grandi eccellenze manufatturiere, il Veneto non lo è stato meno: dalle auto della Miari & Giusti agli elettrodomestici Zoppas, dai detersivi Mira Lanza alle bici Graziella, dalla Brion Vega ai gelati Sanson fino al bagnoschiuma Vidal e ai capi di abbigliamento Americanino, questa regione ha visto nascere e disperdere decine di icone industriali.
Come Lanerossi, fondata nel 1817 da Francesco Rossi, resa grande dal figlio Alessandro, custodita da una scuola di manager di primo livello fino alla crisi e al declino seguito agli Anni Sessanta. “Lanerossino” da sempre è il docente Giovanni Luigi Fontana, che spiega come il marchio di Schio sia intimamente legato alle coperte (e thermocoperte) e all’epopea del calcio Vicenza culminata con Gibì Fabbri e Pablito Rossi nel secondo posto in Serie A, 1977-78.
A usare proprio le coperte Lanerossi come pretesto narrativo sarà Gianluca D’Incà Levis, curatore di Dolomiti Contemporanee. Che nelle caverne del villaggio Eni di Borca ha ritrovato un magazzino di vecchi panni in lana con il cane a sei zampe. «Con Dolomiti Contemporanee» spiega D’Incà Levis «stiamo rigenerando quel giacimento aurifero, quella cava culturale che è l’ex villaggio Eni, dove Enrico Mattei volle chiamare l’architettura di Edoardo Gellner e Carlo Scarpa, il design di Richard Ginori, Floos, Fantoni, Pirelli e Krupp, cioè il meglio dell’industria e dello stile italiano. Non vuole essere un’operazione vintage ma un autentico progetto di impulso rigenerativo. Cercherò di raccontare il futuro. Le coperte Lanerossi riprocessate da Anna Poletti e Giorgio Tollot ne sono un esempio. Spiegherò poi come da una vecchia stiratrice Dell’Orto Chierigatti e da un vecchio ciclostile Gestetner, grazie all’ingegno di Matteo Valerio e Sofia Bonato, possano trovare nuova vita oggetti del design italiano». Un progetto quest’ultimo battezzato Obsolete-studio: come restituire nuovi usi a vecchi macchinari. Nel tempo di stampanti 3D una coraggiosa acrobazia, un’idea che, se coltivata e processata, potrebbe avere presto un risvolto commerciale e aprire una strada di re-branding interessante. Non solo per Lanerossi, le cui coperte “rigenerate” potrebbero però diventare un oggetto di culto dentro le case degli italiani. Non nasconde le difficoltà un altro “lanerossino” di peso, Vittorio Mincato: «Non sarà un’impresa facile perché il marchio contiene il nome della lana, la cui civiltà è in via di estinzione, ma è comunque un bene che se ne parli perché Lanerossi è parte della storia industriale italiana». Come è parte della storia della pubblicità: «Nel corredo
di ogni casa, nei sogni di ogni sposa» recitava una réclame. Persino il signor Bonaventura, in un mitico sketch di Carosello, dopo aver ritrovato un anello smarrito declinò il suo assegno da un milione al grido di: «Grazie, preferirei le Lanerossi».