Da piazza Fontana (1969) alla stazione di Bologna (1980), Treviso è stata per undici anni la «capitale nera» delle stragi d’Italia: dove i terroristi di estrema destra si sono preparati, da dove sono partiti, dove si sono nascosti, dove sono stati protetti.
Quali nuovi tasselli di verità potranno aggiungere i documenti su Gladio e P2 finora coperti da segreto che nei prossimi mesi, per decisione del governo, saranno «versati» all’Archivio centrale dello Stato? Contribuiranno a unire finalmente le stragi di piazza Fontana, Peteano, Questura di Milano, piazza della Loggia a Brescia, treno Italicus, stazione di Bologna e Rapido 904 nell’unica, sconvolgente strategia che gli atti giudiziari hanno dimostrato in mezzo secolo di processi e sentenze? Stragi pensate a Roma e confezionate dai neofascisti veneti, ampiamenti protetti da pezzi delle Istituzioni, per scatenare la reazione dello Stato e dell’opinione pubblica contro la crescente popolarità dei partiti di sinistra. Un passato che sembra appartenere a un’era geologica fa: eppure dentro quelle carte si dovrebbe capire veramente chi tesseva i fili della rete neofascista del triangolo veneto: Treviso, Mestre, Padova. Da dove tutte le stragi sono partite. Appare tuttavia scettico Guido Lorenzon, il primo – e a lungo solo – testimone civile a indicare nei neofascisti veneti Giovanni Ventura e Franco Freda i responsabili della lunga scia di sangue apertasi con la strage di piazza Fontana. «Si troverà pochissimo, vedrete: il lavoro di pulizia dei carteggi è stato meticoloso, scientifico, certosino. Se qualcosa c’è ancora, sarà per sbaglio, perchè qualcuno avrà dimenticato di cancellare tutto» spiega consapevole ma non rassegnato, salutando con favore la «declassifica» della documentazione su Gladio e Loggia P2 decisa dal presidente del Consiglio. Pesa come un macigno il mezzo secolo di depistaggi, insabbiamenti, reticenze, segreti di Stato, eliminazione di prove e testimoni.
L’ultimo processo che dimostra il ruolo di Treviso di «capitale nera d’Italia» – per usare l’espressione di Lorenzon – è quello per la strage di Bologna, 2 agosto 1980: ottantacinque persone morte, due condanne definitive all’ergastolo (Valerio Fioravanti e Francesca Mambro), una definitiva a 30 anni (Luigi Ciavardini), un ergastolo in primo grado (Gilberto Cavallini) e un processo – al cosiddetto quinto uomo, Paolo Bellini – attualmente in corso a Bologna.
Da Treviso partirono gli esecutori materiali della strage di Bologna: Fioravanti e Mambro, che si facevano chiamare Riccardo e Chiara, erano ospiti di un’ignara trevigiana, Flavia Sbrojavacca, fidanzata di Cavallini, il quale a sua volta si faceva chiamare Gigi Pavan. Il 2 agosto 1980, dall’appartamento di Fontane di Villorba della Sbrojavacca, salirono su una Opel Kadett per compiere la più sanguinosa delle stragi nere d’Italia.
Lo stesso identico copione di undici anni prima, quando nel dicembre 1969, in un casolare di via Libertà 1, a Paese, i neofascisti mestrini e Giovanni Ventura misero a punto l’esplosivo usato per il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano. Quella volta, la bomba fu caricata nel bagagliaio di un’auto, portata a Mestre, quindi a Padova e infine a Milano dove è stata innescata con l’aiuto della cellula milanese di Ordine Nuovo, l’organizzazione neo fascista riconosciuta responsabile della strage.
Tra il 1969 e il 1980 i veneti furono usati come manovali delle stragi e il Veneto come luogo aperto dei neofascisti: protetti da una coltre di perbenismo e indifferenza che suscita ancora l’indignazione matura di Lorenzon: «Perchè parlai solo io? Altri non sapevano meno di me, eppure tacquero». Per questo, a 80 anni compiuti, Lorenzon gira le scuole d’Italia con il suo «Racconto civile» raccontando come sono andate le cose: l’antitesi vivente del «Mi no vao a combàtar». |
|