L’espressione chiave è «connessione in corso». Alla vigilia dell’agognata uscita dal tunnel della pandemia, che ha costretto tutti ad anticipare i conti con il futuro, il museo del Novecento M9 prova a scrivere il proprio.
Diventare laboratorio di futuro, capace – da un lato – di accostarsi a Venezia occupandosi di contemporaneità e – dall’altro – aprendosi verso quel Veneto in perenne ricerca di una sua narrazione moderna. Uno scalo culturale, che nutre e alimenta l’ambizione di essere «hub» del policentrismo veneto.
Proprio dal rapporto con la città parte il colloquio con Luca Molinari, da un anno direttore scientifico di M9.
Attraversando il quadrante M9, un ettaro di superficie, si ha la sensazione di camminare in una grande città europea. Ma la contaminazione con il resto della città appare ancora molto modesta.
«M9 è un grande progetto urbano di rigenerazione: è monumentale e domestico al tempo stesso. Se non ci sbatti contro non lo vedi, ma è un luogo di trasparenze, ci cammini dentro, è un progetto dentro la città, poroso. Credo che Mestre, da quando c’è M9, abbia cominciato una trasformazione, per ora solo in parte visibile. I quadranti urbani si sono messi in relazione, piazza Ferretto, il chiostro, la corte Legrenzi. La dimensione irradiante di quest’area verrà fuori, con l’opportunità di rigenerare tutto il centro urbano. E’ un’area che fa sistema con il circostante».
Come sta reagendo Mestre a questa scossa?
«Mestre è una città europea, che racchiude tutte le caratteristiche e le contraddizioni di una città del Novecento. L’industrializzazione, la ricostruzione post bellica, il boom demografico, la parcellizzazione delle funzioni. L’architettura funzionale, quella legata appunto all’uso degli spazi, ha provocato nel tempo molte scatole vuote, aree dismesse, perchè l’architettura non è sopravvissuta alle funzioni. Ma è accaduto quasi ovunque, non solo a Mestre. Ma le città sono corpi fluidi, in perenne trasformazione, vivono processi di ibridazione costante. La buona architettura sopravvive alla funzione. Pensiamo che qui c’era un convento, che è diventato caserma ed ora distretto museale».
Mestre si porta ancora dietro la nomea di città più brutta d’Italia.
«Mestre è una città ipercontemporanea, che incorpora tutte le contraddizioni e i paradossi del secolo scorso, è un emblema del Novecento, una città simbolo. Oggi è tanto più interessante perchè naturale crocevia di un’area metropolitana molto integrata, che è già entrata nella testa delle persone: è un sistema che abitiamo quotidianamente, non esistono più confini né mentali né territoriali. Da una parte c’è Venezia, con la identità universale, dall’altro c’è un territorio vasto, il grande Veneto, laboratorio nazionale di cambiamento. Noi dobbiamo accostarci a Venezia, umilmente, e aprirci verso il Veneto, diventando appunto un luogo di produzione ed elaborazione di idee».
Dialogare con Venezia non è mai stato facile, per nessuno.
«La nostra sfida è doppia. Da una parte possiamo offrire a Venezia il nostro piccolo frammento di contemporaneità, inserendoci in uno spazio non occupato da altre istituzioni culturali. Ci offriamo come laboratorio, sentendoci pienamente parte del sistema museale veneziano. D’altra parte c’è il Veneto, a cui guarderemo con sempre maggiore intensità, perchè è una regione straordinariamente complessa cui manca una narrazione, la possibilità di esprimere se stessa e tutte le sue contraddizioni. Vogliamo essere quello che la Triennale è stata un secolo fa per Milano, un produttore di modernità».
Tutto questo non è sufficiente a farla diventare città d’Europa.
«Fatta l’architettura, bisogna fare la testa delle persone, perchè evidentemente non basta aprire le porte. E’ quello che stiamo cercando di fare noi adesso, dimostrando che M9 non è un meteorite colorata caduto nel cuore di Mestre ma un centro irradiante, una casa aperta, disponibile a fare delle cose. In fondo, il museo ha anche una funzione civica».
Con la sua direzione la Fondazione si è data un triennio di tempo per imprimere una svolta. In mezzo è scoppiata la pandemia, che vi ha costretto a ripensare di nuovo tutto.
«Abbiamo un programma triennale davanti. Le mostre aperte ora sono un’anteprima, un trailer. Abbiamo cominciato con i simboli, piazzando una foresta nell’ultimo piano, perchè il museo non è una scatola di cemento ma un luogo che respira, che può stupire, che porta dentro le persone, un luogo per tutti, spiazzante. Vedo il museo come un laboratorio di elaborazione di contenuti della contemporaneità. In cui le comunità sono chiamate a partecipare e a sentirsi parte in causa».
Ecco dunque un programma spalmato sul prossimo triennio, dal 2022 al 2024. Come si svilupperà?
«Abbiamo pensato a due trilogie, che si articoleranno in una sessione primavera-estate – di carattere nazionale – ed una autunno-inverno – di carattere più regionale. Cominceremo nel marzo 2022 declinando alcuni dei più diffusi luoghi comuni italiani. Il loro rapporto con il cibo (2022), lo sport (2023) e la musica (2024). E poi abbiamo scelto di raccontare il Veneto in una trilogia che descriverà la storia del disegno industriale, il paesaggio contemporaneo e il tessuto artigianale artistico».
Cosa si aspetta da Mestre?
«Fiducia. Stiamo facendo una campagna di ascolto con le associazioni, a cui chiederemo delle idee per giocare insieme. Stiamo lavorando con le comunità dei nuovi cittadini, con gli studenti Erasmus, con le scuole della città. A Mestre chiediamo di considerare M9 un luogo aperto, dove ciascuno può esprimersi, dove si possono fare cose ».
Come immagina questa realtà tra un decennio?
«Tra dieci anni mi piacerebbe vedere un po’ di colore M9 nel territorio. C’è la grande sfida della riconversione di Porto Marghera, c’è il più grande bosco di pianura del Veneto, ci sono moltissime cose da mettere a fattor comune. Del resto, Venezia è sempre stato un incredibile laboratorio di futuro: nella cultura, nei commerci, nel ruolo delle donne, degli intellettuali. E’ una città sull’acqua, che lavora su scienza e tecnica da sempre per sopravvivere. Bisogna superare questa visione ruskiniana di declino, tornare all’orgoglio di un territorio e di una città che producono futuro e innovazione». (la Nuova Venezia, 19 settembre 2021)