Undici frane mettono a repentaglio la fortezza normanna di Federico II. La storia della montagna saccheggiata, da Vittorio Cini fino all’ascensore

 

castelloMONSELICE. Minacciata da undici diverse frane, scese in una manciata di giorni nel periodo quaresimale, sta crollando la Rocca di Monselice, l’unica fortezza normanna esistente nel Veneto. Insieme ai suoi torrioni, rischia di crollare definitivamente anche il mito di un Veneto «virtuoso» costretto a fare i conti, più che con il maltempo primaverile, con il suo disgraziato passato. E pensare che da questa montagna, oggi ridotta a mozzicone, sono stati ricavati i masegni di piazza San Marco a Venezia, la più bella piazza del mondo. Per capire come è potuto accadere basta sedersi al Bistrot Maleva e guardare le riproduzioni delle cartoline d’epoca che circondano i tavolini all’aperto. Il porto fluviale sul Bisatto, con le chiatte che trasportano la trachite verso la laguna, la veduta dal Ponte della Pescheria: un’attività di cava durata sino al secondo dopoguerra. Si vede una montagna boscata con una cinta muraria che sale fin sulla fortezza costruita da Ezzelino da Romano per compiacere l’imperatore Federico II. La montagna stuprata di Monselice è l’emblema del dissesto idrogeologico del Veneto. Sfruttata per l’estrazione di trachite usata per le ville e i palazzi veneziani, comprata e venduta da aristocratici e industriali, abbandonata all’incuria, regalata alla Regione del Veneto giusto quando bisognava iniziare a metterci i soldi, nuovamente sfregiata da un incosciente progetto di ascensore da scavare nelle sue viscere.

«Porteremo centomila turisti l’anno a Monselice» asserivano i promotori. Un progetto da quattro milioni di euro finito dritto davanti a un tribunale penale, con il cantiere sotto sequestro e i lavori lasciati a metà. Per sapere che tutto questo sarebbe successo bastava camminare ai piedi della Rocca. «Fino a qualche anno fa c’era la manutenzione del bosco» raccontano i più anziani «si tagliavano le piante pericolose, si puliva il sottobosco. Poi tutto è stato lasciato andare». E sui pendii della Rocca sono cresciuti spontanei i bagolari, piante le cui radici s’incuneano nelle fessure della roccia, ne allargano gli spazi. Le piogge, il dilavamento, gli sbalzi termici hanno fatto il resto. I bagolari, in dialetto, sono conosciuti come “spaccasassi”: prima dei geologi, bastava ascoltare i contadini. Questa Rocca che crolla incrocia in curioso parallelo la storia del Veneto. Perché a comprare il mastio federiciano nel 1955 fu l’industriale Vittorio Cini, l’industriale che inventò Porto Marghera a ridosso di Venezia, l’imprenditore della Sade durante la costruzione della diga del Vajont. Il «Conte di Monselice», oltre al titolo nobiliare, comprò il vicino Montericco attratto dalla pietra calcarea che vendeva al cementificio, quello che la Italcementi sta per chiudere. Comprò il silenzio e la complicità di un territorio cui dava lavoro ed effimero benessere.

Adesso i ricordi sbiaditi dei più anziani ricordano il presagio di una sera di moltissimi anni fa, quando dal mastio venne giù un costone che fece tracimare il lago artificiale che si era formato ai piedi del versante nord, dentro la grande cava. Morto il conte, nel 1981 la figlia regalò la Rocca alla Regione del Veneto, che per lunghi anni si limitò a una ordinaria manutenzione. Ma competenze confuse e scarsità di fondi hanno provocato il progressivo abbandono del colle. Non sapendo cosa farci la Regione ne ha condiviso la gestione con una società partecipata da Comune e Provincia, così da piazzare un po’ di poltrone, poi si è appassionata all’idea dell’ascensore urbano: ma a processo, invece dei politici che hanno avallato l’idea, sono i finiti i tecnici che hanno seguito la procedura. Adesso, naturalmente, quest’idea è figlia di nessuno. Anche il presidente della società di gestione Rocca di Monselice, Ferdinando Businaro, è scomparso dalle scene. Anche se i geologi escludono che a provocare le frane di quaresima siano stati i lavori di scavo dell’ascensore, il dubbio rimane. Molto più probabile le cause risalgano all’azione combinata degli scavi novecenteschi mai ripristinati, all’incuria e all’abbandono del bosco, al lavoro silenzioso dei bagolari spaccasassi e al maltempo. Mentre il sindaco offre striscioni e cittadinanze onorarie a improbabili filantropi, davanti al municipio una encomiabile Protezione civile guidata da Giuseppe Rangon gestisce l’accoglienza dei diciassette sfollati, la messa in sicurezza delle abitazioni in «zona rossa», il «disgaggio» dei massi pericolanti e la sistemazione delle reti antirimbalzo. Ma per salvare la Rocca serviranno milioni di euro: il Comune non li ha, la Provincia sta per chiudere, la Regione non sa che pesci pigliare, lo Stato è lontano, l’Europa si è ripresa i soldi dell’ascensore. Per scongiurare il dissesto ci vorrebbe un revamping, ma della memoria.