Cattolica, partigiana, sindacalista e donna delle istituzioni: Tina Anselmi si è spenta nella sua casa di Castelfranco nel giorno di Ognissanti.
Cattolica, partigiana, sindacalista e donna delle istituzioni: Tina Anselmi si è spenta nella sua casa di Castelfranco nel giorno di Ognissanti. I familiari più stretti, che negli ultimi anni hanno custodito con discrezione la malattia che la imprigionava, lo avevano in qualche modo intuito. Da una ventina di giorni le sue condizioni erano peggiorate. Avrebbe compiuto novant’anni il prossimo 25 marzo. L’ultimo omaggio, nel giugno scorso, l’emissione di un francobollo per la nomina nel 1976 alla guida del dicastero del Lavoro, prima donna ministro d’Italia.
Ma restringere la sua storia politica a questo primato – uno dei molti della sua vita – sarebbe oltremodo riduttivo. Tina Anselmi è stata cattolica, staffetta partigiana, sindacalista nella Cisl, parlamentare per sei legislature, tre volte sottosegretario e tre volte ministro, presidente della Commissione d’inchiesta sulla P2, voce della Costituzione fino a che le forze glielo hanno consentito. Più volte invocata come candidata al Quirinale, pagò per tutta la vita la sua diversità democristiana. Mai sfiorata da un’allusione né da un sospetto, mai sorpresa a costruire correnti o confezionare tessere, fu scaricata dal suo stesso partito nella primavera del 1992. Senza una piega, continuò il suo impegno nella istituzioni guidando la Commissione per le violenze militari italiani in Somalia e quella sul risarcimento agli ebrei per le leggi razziali. Nelle scuole di mezza Italia continuò a spiegare la nostra Costituzione.
Figlia di un farmacista di idee socialiste e di un’ostessa, frequenta il ginnasio e le scuole magistrali. A 17 anni, sconvolta davanti all’impiccagione di 31 partigiani a Bassano del Grappa, decide di aderire alla Resistenza. Ad Enzo Biagi risponde: «Di fronte alla barbarie non potevo rimanere indifferente». La staffetta Gabriella, il suo nome di battaglia, si mette agli ordini del comandante della Brigata Battisti Gino Sartor. Aderisce alla Democrazia cristiana, dopo la Liberazione va a studiare alla Cattolica di Milano, dove si laurea in Lettere, poi l’impegno nel sindacato per le operaie tessili e poi per le maestre elementari. Si allontana presto dal Veneto, costruendo una sua rete di relazioni tra Roma e l’Europa, prima nel Movimento giovanile Dc e poi nell’Unione europea femminile.
Nel 1959, a 32 anni, entra nel consiglio nazionale della Dc, dove diventa presto vice delegata delle donne democristiane. Nel 1968 il suo ingresso in Parlamento con l’impegno nella Commissione lavoro e previdenza sociale. Per tre volte – nei governi Rumor e Moro – è sottosegretario al Lavoro e alla previdenza sociale. La nomina a ministro del Lavoro è del luglio 1976, nel quarto governo Andreotti. Ma il suo riferimento umano e politico è Aldo Moro, di cui è amica e confidente. Nel drammatico giorno del rapimento del presidente Dc c’è una foto che la ritrae in via Fani, terrea e sgomenta, accanto all’auto dello statista. Nei 55 giorni del rapimento garantì i collegamenti tra la famiglia e la Democrazia cristiana: «Noi dopo quei giorni non saremmo mai più stati gli stessi – raccontò – si aprì una ferita nella nostra intelligenza e nella nostra umanità».
Nel governo di unità nazionale formato in quei giorni lei era ministro della Sanità. Portano il suo nome importanti riforme: da quella sulla reversibilità delle pensioni a quella degli assegni familiari, dalla rete dei consultori familiari all’avvio del Sistema sanitario nazionale. Sua in quanto ministro è la firma in calce alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Prima ancora, l’adeguamento del diritto di famiglia alla parità di genere.
Nel 1981 l’incarico più delicato, a presidente della Commissione d’inchiesta sulla P2. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini avverte: «Adesso non lasciate sola la signorina». Rimane memorabile lezione la reprimenda al reticente comandante della Guardia di Finanza, generale Orazio Giannini, davanti alla commissione: «Generale, le ricordo che lei ha giurato fedeltà alla Repubblica italiana e questo si chiama tradimento». «La loggia P2 – dirà – ha tentato di influenzare e condizionare la vita politica del nostro paese. Non era una combriccola di chiacchiere, ma un tentativo di colpo di Stato». Uno spudorato Gelli, che rifiutò sempre di essere ascoltato dalla commissione, tentò negli ultimi anni di avvicinarla. Fu respinto sdegnosamente. L’eredità che ci consegna è stagliata in queste poche righe: «Nessuna vittoria è irreversibile – spiega la Anselmi – . Dopo aver vinto possiamo anche perdere. Se viene meno la nostra vigilanza noi non possiamo abdicare, dobbiamo ogni giorno prenderci la nostra parte di responsabilità perché solo così le vittorie che abbiamo avuto sono vittorie permanenti». Grazie di tutto, Tina.